martedì 25 gennaio 2011

Part of my world - Parte del mio mondo

Da quando il crociato è nato, quasi tutti quelli che apprendono la notizia tra le prime cose che chiedono infilano la frase di rito "E la sorella come l'ha presa?". La sorella ha 16 mesi da 5 giorni, ne aveva poco più di 15 quando lui è nato e fino a ieri non ha dato segni di interesse alcuno rispetto al fagotto urlante. Non che i due PIP dei pargoli si aspettassero diversamente. Al momento siamo in bilico tra la spasmodica attesa e la frustrazione galoppante per l'arrivo della favella di 50Grillo, la quale per ora non mostra differenze sostanziali dal fratello, eccezion fatta per una deambulazione alla Usain Bolt in giro per casa da mattina a sera. Il lattante ed ultimo arrivato, infatti, al momento è nella fase CCCN (Cibo, Cacca, Ciuccio, Nanna), in cui la terza "C" è una assoluta novità rispetto all'esperienza dei PIP con la sorella, e non avendo manifestato altro che un deciso interesse per il latte (della serie: se non me lo dai ti spacco i timpani, uno alla volta e con dolore) resta un po' in secondo piano anche per noi. La sorella non ha quindi subito contraccolpi, per ora, dalla presenza del piccolo. Anzi, forse per prevenire un eventuale rifiuto del neonato, almeno la sottoscritta ha incrementato la dose di attenzioni verso la primogenita, mettendola sempre al centro dell'attenzione. Non che il PIP approvi, e a ragione, ma anche lui da par suo si sta industriando in ogni modo per stimolare la pargola alla favella, consentendole persino di sedersi a tavola con noi, finalmente "promossa" al cibo e agli orari dei grandi. Risultati finora ottenuti? Pochini. Seguitiamo a dover fare da perno al biberon della bimba a colazione, a doverla imboccare e a dover invigilare affinché non rovesci qualsiasi cosa sulla tavola alla sua portata trasformandola in pasta da gioco edibile. Di buono c'è che prova a bere da sola col bicchiere. Quanto alla versificazione...beh: qualcosa "Mbete'"vorrà dire, non so se in Cinese, Zulu o qualche altro dialetto locale in giro per il mondo. E' anche patetico che i PIP tentino di stimolare la pargola a chiarire il concetto ripetendo il verso a profusione e tentando di darle l'impressione di capirla. Macché. La fetenzia sa perfettamente che brancoliamo nel buio e, guarda un po', sa altrettanto perfettamente come approfittarsene aprendo le braccine e correndoti incontro per ogni dove facendoti vanamente sperare che dalla sua boccuccia di rosa un domani, inaspettatamente, usciranno quelle due doppie sillabe tanto agognate: "mamma" o "papà". E invece no, manco i monosillabi "sì" e "no" ci vengono concessi. In tutto questo, figuriamoci che interesse può mai rivestire per lei un fagotto urlante...salvo capire che pulsante eventualmente spingere sul suo pancino per farlo partire o fermare a comando - mia figlia fa parte della generazione tecnologica ribattezzata "del telecomando".
Eppure...eppure c'è un rito che 50 pratica regolarmente. Quando vuole giocare con te prende il contenitore rosso vuoto delle sue costruzioni morbide, te lo allunga e ti fa capire che vuole che tu lo usi come berretto: una sorta di feticcio da Cappellaio Matto o di calumet della pace con il quale sembra dirti: "dai, tocca a te". Beh, ieri il fratellino era sdraiato sul divano alla sua altezza - e non sopraelevato nella sdraietta - e lei non ha avuto scuse per ignorarlo. Infatti neanche ci ha provato. Il crociato era sveglio e faceva boccacce tentando, pare, di misurarsi con l'allenamento dei propri muscoli facciali. Lei lo ha visto, ha sorriso entusiasta, si è avvicinata e ha brandito il contenitore rosso delle costruzioni per calarlo sulla testa del fratello. Il piccolo non ha ovviamente mosso un muscolo, ma i PIP sono scoppiati a ridere. Per la prima volta, 50Grillo ha dato segno di capire che non è più sola...anche se forse sta bruciando le tappe saltando direttamente alla fase gioco, almeno per i gusti del crociato.

The day after tomorrow - Dopodomani

Da venerdì scorso è cominciata una nuova era, o almeno quella che si preannuncia tale: MIP e PIP contemporaneamente a casa. La libera professione e - è giusto sottolinearlo - un forte desiderio di emancipazione hanno consentito a PIP di lanciare la sfida al suo "principale" e fare il grande salto. L'espressione serena ed appagata di chi riesce a fare qualcosa che, pur avendo sempre potuto fare, non ha mai fatto, rende più di qualsiasi descrizione. Eppure, si dirà, è un salto nel vuoto...premesso che non lo credo, vorrei spezzare una lancia in favore di quelle persone che per i propri figli sono disposte a cambiare vita. Per i giovani d'oggi in un Paese come l'Italia , e mi ci metto anch'io, direi che posso, non v'è alcuna sicurezza. Un posto pubblico fisso e certo ce l'hanno gli ormai cinquantenni ed i raccomandati; un posto fisso nel privato, invece, sta diventando un miraggio, sostituito sempre più frequentemente da finti licenziamenti seguiti da altrettanto finte fatturazioni per collaborazioni (Partite Iva aperte per importi mensili fissi, cioè l'equivalente di uno stipendio ma senza contributi o altri oneri sociali e/o statali per il datore di lavoro...mica male!) o da contratti "flessibili". In tutto questo, fare un lavoro gradito ed appagante è paragonabile ad incontrare un marziano nel deserto. E allora cosa resta? Per la nostra vecchiaia non ci sarà quasi sicuramente sostegno - voglio rileggere queste righe tra trent'anni e, se sarò ancora qui, vedere se avevo ragione - e quindi a che scopo dobbiamo sacrificare la giovinezza? Molti dei nostri genitori hanno lavorato come pazzi da dipendenti per trovarsi oggi, sereni e tranquilli, a fare i nonni ma, dato che a noi toccherà lavorare tutta la vita, ammesso che la salute ci assista,tecnicamente dovremmo lavorare e basta, sbatterci passando da un mestiere mediocre all'altro rinunciando a tutto, famiglia compresa, per morire, in pratica, senza aver vissuto. Vero è che il lavoro nobilita l'uomo ma è vero anche che il denaro non sfama l'anima. Per un trentenne di oggi in Italia il futuro E' il presente. Molti di noi non vivrebbero senza un sostegno dei genitori, piccolo o grande che sia, anche fosse solo del tempo speso in nostro favore. Chi può ne approfitta, non perché non possa farcela da solo/a ma perché non ha altra scelta. Tuttavia proprio chi può, a mio avviso, deve industriarsi per sfruttare quel vantaggio e tradurlo in emancipazione, produzione, profitto. Lo sbocco degli studi non deve essere necessariamente un posto pubblico o privato immutabile e ben retribuito, anzi. Aspettarlo significa vivacchiare e non vivere. L'equazione studio superiore uguale lavoro della vita dovrebbe essere un diritto? Forse. O forse non è altro che un beneficio di cui qualche generazione ha goduto. Il punto è che se il futuro è il presente è quest'ultimo per cui vale la pena vivere e rischiare. Personalmente non salirei su un tetto per difendere qualcosa di cui non ho mai avuto esperienza alcuna e che non è, per me ribadisco, che un'utopia in un mondo che va avanti e non ti aspetta di sicuro, questo anche se non critico chi lo fa, specialmente se è tutta la vita che ha un sogno e non riesce a realizzarlo per colpa della burocrazia. Tuttavia chi si spende per difendere il diritto a fare il dipendente lo fa portandosi dietro, spesso e volentieri, un sacco di altre pretese di diritto, come una famiglia, una bella casa, una bella auto, le vacanze più volte all'anno, etc. L'esperienza mi ha insegnato che ciascuna di queste cose richiede una battaglia propria e che, purtroppo, nessuna è realmente un diritto bensì un rischio. Un figlio, figuriamoci due, è un rischio immenso anche se si ha il posto fisso, contrariamente a quanto molti credono. Posto fisso, ammesso di averlo, significa ore ed ore lontano dai figli, poco tempo per loro, necessità di appoggi, soldi per mantenerli e quindi altro lavoro. Molti si chiedono: se non riesco a mantenermi io come faccio con un bambino? Questa è una domanda sensata, non quella che altrettanti danno come equivalente: Senza un posto fisso, come lo mantengo un bambino? Per mantenersi si può anche rischiare, assicuro. Si può imparare un mestiere, anche artigianale, di quelli che non fa più nessuno, e lavorare eventualmente a casa propria, risparmiando su auto, spostamenti, tempo e stress. Ci si può industriare per tirare fuori il meglio da se stessi, accettando di lavorare a compenso, senza garanzie, ma costruendosi una reputazione con il proprio lavoro e basta. Si possono imparare più mestieri, adattarsi a quel che serve e/o possibilmente piace, vivere secondo necessità, facendo del proprio meglio, ogni giorno. Serve fortuna, certo, ma ne serve anche per non finire licenziati domani da un'impresa o dallo Stato. La libera professione non è un lusso, è un rischio eppure...eppure mi ha consentito di fare qualcosa che ho sempre desiderato per me bambina: esserci per i miei figli. Certo, bisogna risparmiare, fare i conti mese per mese, non c'è riposo né sicurezza economica ab aeternum ma, in fondo, se è il prezzo da pagare per vedere i miei figli crescere perché no? Assicuro che è anche possibile mettere da parte qualcosa e fare un po' di beneficenza, se si vuole. Certo: niente macchina nuova ogni tre anni, poche uscite al ristorante - ma c'è chi si diverte a fare la pizza in casa ed offrirla agli amici - o al cinema, le vacanze quando si può, non c'è maternità che tenga e alle volte bisogna accettare commesse che ti fregano le notti ed i fine settimana però...è il mio presente, e ne vale la pena! Non so se sto facendo la scelta giusta per i miei figli - del senno di poi son piene le fosse e comunque si faccia in qualcosa sempre si sbaglia con loro - però è la scelta giusta per me. Ho provato a lavorare sotto padrone, a sperare in qualcosa di più che un segretariato a vita e così facendo ho speso cinque anni. Ho imparato tante cose nel frattempo che mi servono anche ora ma alla fine ho ripiegato su quel che sapevo fare meglio anche senza la certezza di un posto fisso; ho tentato e, per ora, ho avuto la fortuna di andare avanti. Si sa però che la fortuna aiuta gli audaci. Per questo sostengo di cuore chi si batte per il proprio presente, per un lavoro che ama e/o per la famiglia che desidera. Impegnarsi paga, sempre, anche se le battaglie a volte sono toste e qualche volta si perde. Il presente E' il futuro e aspettare dopodomani serve solo a perdere tempo che non è meramente denaro ma vita! Un abbraccio al mio PIP e a tutti i PIP là fuori che si fanno coraggio, ogni giorno, e rischiano. Il vostro sguardo sulla vita vale più di qualsiasi descrizione!

domenica 16 gennaio 2011

When a man loves a woman...

Ultimamente  questa canzone di Percy Sledge mi suona nelle orecchie spesso. E' una canzone un pò triste a dire il vero che parla di un uomo asservito ed una donna crudele che, forte della totale sottomissione dell'uomo per amore, ha il diritto di trattarlo quasi letteralmente come una "pezza da piedi" senza conseguenze. Non credo sia una canzone d'amore...se l'amore rende schiavi allora non è amore, è servitù passiva o, peggio, sadomasochismo. Tuttavia mi rendo conto che, melodia a parte, la canzone mi piace perché rende anche l'idea dell'attesa di ricevere e della disponibilità di dare. Lascia passare il messaggio che, per amore, gli occhi restano aperti sulla compagna, sempre, lo sguardo non si volge altrove, l'impegno resta intatto. Diventare genitori comporta un grosso rischio per una coppia, che è proprio quello di perdersi, come in un labirinto di cui si credeva di conoscere il percorso. Si comincia a cercarsi tra i vicoli ciechi chiamandosi a gran voce quando magari si è da parti opposte della stessa parete e si va avanti un pò, fin quando la voce viene a mancare e non si grida più. Il bello è che non sono i figli a creare questa situazione ma i genitori stessi. Se l'amore non è un'illusione ci si tiene per mano lungo tutto il percorso, ci si cerca, ci si ama, con la mente e con il corpo perché la monogamia non è appena un valore o un'espressione dell'etica ma anche una scelta consapevole e condivisa. Ci si ama con i gesti e con le parole: un compagno che si impegna ad essere un buon padre, per se stesso e per suo figlio/a, che partecipa della sua vita dai bisogni primari, che aiuta senza che gli venga chiesto, contribuisce con pazienza e disponibilità ma è anche in grado di non nascondere le proprie fragilità quando si presentano ed offrire se stesso in ogni momento, nel bene e nel male...beh, ha interpretato direi alla lettera la formula di rito, anche se a quel rito non ha mai partecipato formalmente. Ogni tanto mi chiedo cosa veda il mio compagno quando mi guarda, in questo momento in particolare, forse per via degli ormoni che si modificano dopo il parto, o forse anche per curiosità nei confronti della nuova situazione. Se dovessi guardarmi io, credo che non vedrei che difetti: sicuramente una donna stanca, con due occhiaie che fanno provincia e la sensualità di un primate appena riconoscibile, di umore appena appena stabile e persa nell'organizzazione della giornata. Eppure so che il mio compagno non è così che mi vede, lo so perché non mi manca mai uno sguardo dolce e non appena compassionevole o una carezza, più volte al giorno, e perché rende la sua presenza tangibile pur che discreta. Certo non va sempre bene ma alla fine va bene anche quando va male perché c'è voglia di essere costruttivi. Mi ripete spesso: "dobbiamo stare uniti, soprattutto adesso e coalizzarci contro le forze neonate e lattanti"...ed è un mantra buffo ma che funziona. Devo ammettere che alle volte penso sia più bravo di me a traghettare la barca ma stranamente la cosa mi da spinta invece che abbattermi perché mi spinge ad imparare atteggiamenti e considerare punti di vista nuovi. Sicuramente posso dirmi davvero fortunata perché riesco a vedere cosa il titolo di quella canzone realmente significa: un buon padre è anzitutto un buon compagno per la mamma ed io sono davvero felice che i miei figli siano affidati alle sue cure perché ne beneficeranno soltanto. 

lunedì 10 gennaio 2011

T.I.N.

Nel romanzo "Il Mago di Oz", c'è un personaggio chiamato "Omino di latta" (in inglese Tin Man). L'Omino di Latta ha un solo desiderio: avere un cuore, che è l'unica cosa che gli manca per renderlo umano. 
Ho pensato molto all'Omino di Latta in questi ultimi giorni, forse perché per una (speriamo) breve finestra temporale lo sono stata anche io. Esiste infatti un luogo in cui i P.I.P sono davvero P.I.P. perché non sanno se il loro bambino o bambina ce la farà a sopravvivere o meno. Per loro, la definizione "Genitori in corso" non potrebbe essere più appropriata, anche se il loro è un corso che più che altro è un limbo, una finestra di dolore, compassione e speranza che incrocia le vite di uomini e donne di ogni estrazione, un incontro che può durare da pochi giorni a mesi e concludersi Dio solo sa come. Questo luogo si chiama T.I.N. (Terapia Intensiva Neonatale). 
In T.I.N. tutti i genitori sono come Omini di Latta: in sospeso, come in attesa di sentire un cuore che batte, per un tempo indefinito che sembra a tutti eterno. In T.I.N. i genitori sono Omini di Latta ed i piccoli il loro cuore. Non ci sono parole per descrivere ciò che significa vedere i propri figli sotto plexiglas, spesso collegati a grovigli di fili da cateteri e sonde, poterli toccare solo inserendo le mani dentro le culle termiche attraverso le aperture laterali, oppure imparare a tenerli in braccio armeggiando con matasse di fili per evitare di far suonare gli allarmi dei monitor, e infine guardarli per ore sperando di scorgere un qualche sospirato miglioramento in quei corpicini spesso così minuscoli che si fatica a credere siano esseri umani. Siamo tutti Omini di latta in T.I.N., semplici contenitori di un metallo duttile e leggero che si accartoccia con le mani. La nostra fragilità si misura nell'incredibile conforto umano che siamo in grado di dare e ricevere in un posto così alienante. Gli infermieri chiamano subito i bimbi per nome e tutti li conoscono a menadito come se fossero stati lì da sempre. I genitori si danno subito del tu e spesso neanche si presentano, perché in T.I.N. sono solo la mamma e il babbo di.
La mamma di Marcello ad esempio: è una donna giovane, molto bella, con uno sguardo dolce e paralizzato dal dolore. Quando parla del suo bambino, che è un piccolo gigante per quanto tenacemente se ne sta aggrappato alla vita nonostante tutto ciò che gli è successo, non sa se essere terrorizzata o sollevata. Finalmente hanno rimosso tutti i cateteri al bimbo e tolto gli antibiotici. Ma è l'ultima battaglia di una lunga guerra e gli alleati antibiotici non ci sono più perché il loro supporto è ormai inutile. Il piccolo gigante andrà da solo alla sua ultima singolar tenzone e la sua mamma sarà lì con lui, comunque vada.
Il babbo di Alessio sorride, con gli occhi stanchi. Il suo bimbo è forte, è la personalità della stanza. Le infermiere dicono che ci vorrebbe una dada solo per lui perché se non c'è chi lo tiene in braccio e gli parla e lo coccola lui si incavola e piange a dirotto ad un imprecisato livello di decibel finché qualcuno non lo degna di attenzione. Se arriva a 40 cm. è molto, ma i suoi occhietti vispi ti fulminano per come ti guarda e questo basta a fare coraggio al suo babbo Omino di Latta, nonostante la guerra sia ancora lunga e lo attendano almeno altre due toste battaglie.
La mamma di Serena aspetta accanto alla culla un segno e nel frattempo racconta la sua esperienza, conforta anche chi è più fortunato, si impegna a produrre latte per la sua piccola che lotta ogni giorno per crescere, non sapendo neanche se la chiamerà mai mamma.
La mamma di Riccardo è stordita e stanca. Ha fatto finta di dormire dal giorno del parto se non quando è crollata semisvenuta la seconda notte per tre ore in ospedale. Ha messo mano a tutte le arti della fuga conosciute per passare qualche ora con il suo bimbo che, in confronto agli altri nella sua stanza, è un gigante sano con un piccolo acciacco che se ne sta li a fare lampade UV e un pò di CPAP per respirare meglio. Eppure anche lei si sente un Omino di Latta perché se anche la degenza durerà poco ogni ora è un'ora di troppo.
Il papà di Riccardo si divide tra la sorellina a casa e l'attesa di notizie. Sa che prima o poi il telefono squillerà per fargli sapere. Ormai è diventato un esperto in fatto di pazienza. Ha mal di testa, è stanco ma non molla, attende di poter prendere in braccio il suo bimbo e dargli il benvenuto a casa.
La mamma e il papà di Riccardo sono ancora decisamente in progress, ma in questi giorni sono stati benedetti da un'esperienza importante, io credo, grazie alla quale hanno, semmai ne avessero avuto bisogno, compreso ancor di più la propria fortuna. Riccardo è arrivato a casa 4 giorni dopo la nascita, roseo e pacifico e mamma e papà hanno chiuso gli occhi in pace ascoltando finalmente quel battito. Il pensiero va a tutti gli Omini di Latta ancora nel limbo: per loro una Preghiera Umana e bellissima, dal profondo dei nostri cuori. Grazie di aver condiviso la vostra fragilità con noi, ci avete reso persone migliori. In cambio, restiamo in attesa al vostro fianco, in attesa di ascoltare anche i vostri cuori battere forte e chiaro. Un abbraccio